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| prof.Alessio Fornasin |
«Anche se improvvisamente tutte le donne in età fertile residenti in area montana raggiungessero il tasso di rimpiazzo della popolazione, ovvero due figli per donna, per un lungo periodo la popolazione montana continuerebbe a calare. E in realtà l’evoluzione della natalità è sempre più negativa: nel 2024 abbiamo toccato il minimo storico per l’Italia. Quindi per diversi decenni a venire la popolazione montana sarà in calo e non ci sarà un ringiovanimento». Il prof. Alessio Fornasin, demografo dell’Università di Udine, smorza l’entusiasmo generato da alcuni recenti rapporti nazionali sulla montagna che hanno indicato una possibile svolta.
Prof. Fornasin, allora la montagna è spacciata?
«Niente affatto. La riduzione della popolazione non deve tradursi in una resa dei territori montani o a pensare che la montagna morirà. Si può crescere economicamente e socialmente anche se il numero delle persone residenti cala. Conta la qualità delle persone presenti, di quelle che restano senza scendere in pianura ma anche di quelle che sempre più spesso dalla pianura vogliono spostarsi in montagna. Più che il loro numero conta chi sono, la loro età e propensione a fare figli, la loro formazione, la loro professione, come vivono, come si curano del territorio che li circonda, come amano il paesaggio e la cultura locale. Queste saranno le risorse che andranno preservate e incentivate con ottimismo se si crede nel futuro, mantenendo attive le scuole e i servizi essenziali, creando un quadro istituzionale favorevole agli investimenti e all’innovazione. Insomma una cultura del fare contrapposta alla cultura del lamento».
Ci sono state molte polemiche sulla nuova strategia del governo sulle aree interne, che in uno dei contributi teorici ha sostenuto che vanno solo accompagnate nel loro declino.
«L’espressione utilizzata è assai infelice. Fa pensare ad una rinuncia, all’abbandono di territori che invece sono fondamentali per il benessere di tutta la società italiana. Ritengo che, anche di fronte a dati demografici molto gravi che potrebbero anche giustificare espressioni così brutali, l’atteggiamento della politica debba essere sempre improntato alla soluzione dei problemi piuttosto che a lasciare che le cose vadano per la loro strada. In un lavoro corposo come la Strategia nazionale per le aree interne può scappare qualche espressione infelice, ma questa sicuramente suona molto male. Fortunatamente, dal punto di vista concreto, non vi è traccia nella Strategia dell’applicazione di questo atteggiamento».
Nel Rapporto montagna dell’Uncem si legge che dal 2019 al 2023 la popolazione residente in aree montane in Italia è aumentata di 100 mila. Lei non ci vede un segnale di svolta?
«In quel rapporto si dice anche che la popolazione residente in aree montane nel Friuli Venezia Giulia sarebbe aumentata del 2%. I conti, francamente, non mi tornano con i dati che ho a disposizione e non sarei in grado di replicare in modo scientifico questo risultato. Non voglio dire che queste statistiche sono sbagliate, ma probabilmente è stata adottata per rilevazione una nozione ampia di comune montano, così ampia però da creare una sorta di “effetto miraggio”. Se l’analisi fosse stata fatta prendendo come territorio montano la classificazione amministrativa che deriva dall’inclusione di determinati comuni nelle Comunità montane, allora bisogna considerare che spesso vi risultano inclusi ampi territori che montagna non sono, ma anzi sono decisamente di pianura. Per fare un esempio vicino a noi, la Comunità di montagna delle Prealpi Friulane occidentali, comprende anche i territori comunali di Spilimbergo, Maniago, Sequals e Vivaro che vivono essenzialmente in una logica di pianura e per i quali la montagna è un accessorio territoriale scarsamente popolato. Utilizzando il sistema Istat di classificazione dei territori montani i risultati sarebbero ben diversi. Se parliamo di vera montagna in Friuli i dati non sono per nulla positivi. Si nota in alcune zone un saldo migratorio positivo, ma il saldo di nascite e decessi rimane problematico».
Sempre il rapporto Uncem contiene un sondaggio secondo il quale il 56% dei cittadini italiani sarebbe propenso a trasferirsi in montagna se ne avesse la possibilità…
«Questo tipo di domande ha le stesse problematiche di quando si chiede alle persone quanti figli vorrebbero avere. Di solito la visione ideale spinge a dichiarare più del numero dei figli che poi si ha. Indubbiamente la montagna ha degli elementi di attrattività e delle carte vincenti, soprattutto per le sue qualità ambientali e climatiche. Ma da qui a lasciare la pianura per spostarsi nelle terre alte ce ne passa».
Offrire incentivi economici a chi resta e vuole trasferirsi in montagna è una strategia valida?
«Se fossi sindaco di un comune montano anche io farei di tutto per valorizzare e rendere attrattivo il mio territorio e quindi penso che queste iniziative siano positive. Dal punto di vista generale delle politiche demografiche però, in questo modo non si risolve il problema. Nei comuni che le attuano efficacemente possono mitigare i problemi, ma spesso sfavorendo altri comuni montani meno attivi e intraprendenti. Molto raramente queste iniziative, per esempio, hanno come target gli stranieri (specie se dell’Africa o dell’Europa Orientale); sono rivolte sempre a persone molto simili ai residenti, con caratteristiche linguistiche, religiose e di orizzonti di valori molto omogenee. Alla fine è un gioco a somma zero che non risolve il problema globale della montagna, che va affrontato invece su un territorio vasto. Forse non basta più nemmeno un livello nazionale, ci vorrebbe una strategia europea per il ripopolamento della montagna».
In che direzione bisognerebbe andare?
«Bisogna dare alla montagna ciò che è giusto, non confondendo i privilegi con le necessità. Per fare degli esempi si potrebbe cominciare dall’acqua. La montagna regala l’acqua a tutti. Ma perché la montagna deve pagare l’acqua come la pianura se non di più? Se ho un negozio in montagna, magari in un paese di 500 abitanti o anche appena qualche decina, c’è bisogno di incentivi che rendano competitivo e sostenibile economicamente questo esercizio commerciale, altrimenti è costretto a proporre le stesse cose che offre un centro commerciale di pianura ma a un prezzo molto più alto. Il piccolo commercio che opera in pianura può almeno cercare di servire delle nicchie di consumo, ma in centri piccoli e spopolati ciò risulta impossibile per lo scarso bacino di utenza».
Le Prealpi Giulie sono l’area montana più fragile demograficamente in Friuli. Eppure spesso queste vallate non hanno distanze proibitive dai grandi centri della pedemontana e nemmeno altimetrie impegnative. Come mai?
«Non ho mai studiato questo caso specifico, anche se è vero che spesso queste vallate sono psicologicamente vissute come più impervie, problematiche e inaccessibili di quello che in realtà sono. Anche in Università di Udine quando si parla di montagna si intende sempre la Carnia e il Tarvisiano, dimenticandosi del resto. C’è probabilmente una difficoltà del territorio a proporre e a evidenziare le proprie potenzialità. Ci vorrebbe forse una maggiore autopromozione facendo comprendere anche la vicinanza ai servizi offerti dai grandi centri della pedemontana». (Roberto Pensa)
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